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Perchè i governi salvano sempre e solo le banche?

Nei giorni scorsi, il Consiglio dei Ministri del governo Renzi, con un decreto scritto e approvato in fretta e furia (di domenica!), ha approvato una misura d’urgenza per salvare quattro banche a rischio fallimento. Banche “in sofferenza” (un eufemismo per dire che erano quasi fallite?) che erano già commissariate da tempo: Banca Marche, Carife, Cari Chieti e Banca Etruria (di cui è stato vicepresidente, fino subito prima di essere commissariata, il padre del ministro Maria Elena Boschi, Pierluigi Boschi). Per alcune di loro, le criticità risalgono addirittura al 2011. E, in tutto questo tempo, la gestione controllata non sembra sia servita a risolvere i problemi. Anzi, forse, li ha peggiorati. Al punto che, oggi, le risorse necessarie per evitare clamorosi fallimenti ammonterebbero alla ragguardevole somma di 2 miliardi di euro (ma c’è chi parla di una cifra ben maggiore – tre miliardi – per fornire a queste banche un “certa liquidità”).

Una misura, si sono precipitati a specificare i tecnici del governo, “a costo zero per i contribuenti”. Ammesso che sia vero (non lo è come vedremo tra poco), si tratta dell’ennesimo favore di un governo italiano alle banche.
Del resto, anche a proposito degli aiuti miliardari concessi dai governi precedenti al Mps si parlò di misura a costo zero. Semplici prestiti, si disse. Dimenticando di spiegare che la banca avrebbe potuto restituirli praticamente senza interessi.

E proprio le quattro banche sopra citate erano già state oggetto di un’altra misura da parte del governo: a gennaio scorso quando il CdM si era riunito per decidere della misura per convertire le banche popolari. Una riforma importante alla quale, però, proprio il ministro delle Riforme, Elena Boschi, non partecipò (stando alle sue dichiarazioni, per evitare polemiche dato che il padre era dirigente di una delle banche oggetto della misura). Eppure, in passato, i governi non avevano adottato misure analoghe in favore di banche come il Banco di Sicilia. Ma, allora, nessuno si azzardò a pronunciare una sola parola (e tutti i siciliani stanno ancora pagando le conseguenze di questa “dimenticanza”).

La realtà è che, nonostante trattamenti privilegiati e sostegni da parte di tutti i governi, molti istituti di credito sono in crisi. Negli ultimi anni, a queste “imprese” sono stati erogati miliardi e miliardi di aiuti. Le misure e gli interventi volti a favorire le banche non si contano più.
In attesa del via libera definitivo, da parte di Bruxelles, per la creazione di una “bad bank” nazionale (un istituto che raccolga tutte le “sofferenze” delle banche del Bel Paese e scarichi sulle spalle dei cittadini le conseguenze di gestioni azzardate), il primo gennaio 2016, entrerà in vigore il cosiddetto “bail in”: le banche potrebbero scaricare le perdite derivanti dalla gestione i titoli spazzatura o a rischio anche sui correntisti (con depositi superiori ai 100.000 euro). Un modo come un altro per consentire a questi istituti di far pagare ad altri parte delle colpe derivanti da una cattiva gestione.

Aiuti dopo aiuti che si sommano a trattamenti privilegiati che cercano di nascondere l’elevato numero di banche italiane in crisi. Secondo un rapporto dell’Associazione Bancaria Italiana, ad essere a rischio sarebbero molte: l’Istituto per il credito sportivo, la Cassa di risparmio di Ferrara, la Banca delle Marche, la Bcc Irpina, la Cassa di risparmio di Loreto, la Banca popolare dell’Etna, la Banca padovana credito cooperativo, la Cru di un Folgaria, il Credito trevigiano, la Banca popolare delle province calabre, la Cassa di risparmio della provincia di Chieti, la Banca di Cascina, la Bcc Banca Brutia, la Bcc di Terra d’Otranto e la Banca popolare dell’Etruria e del Lazio.

Come mai tante banche versano in condizioni così disastrose? A cosa sono serviti gli aiuti diretti e indiretti concessi fino ad ora? E che fine hanno fatto le montagne di euro periodicamente distribuiti dalla Bce?
A proposito di Bce, alla fine dello scorso anno, la situazione non sembrava così tragica dopo lo “stress test” da lei imposto alle banche europee. Proprio una delle banche oggetto della misura dei giorni scorsi, la Banca popolare dell’Etruria (sempre lei), nel 2014 aveva fatto registrare performance sbalorditive. Inspiegabilmente, però, all’inizio del 2015, la Banca d’Italia ha deciso di commissariarla per “insufficienza patrimoniale rispetto ai requisiti prudenziali”. E senza che nessuno si chiedesse la ragione di un simile cambiamento.

Che la situazione di molte banche è critica lo si sa bene. Lo dicono i numeri. Secondo l’ABI, il rapporto tra le sofferenze bancarie e il capitale ha superato il venti per cento (20.92), con un trend in crescita e un’impennata nell’ultimo periodo. Non a caso, a settembre la Banca d’Italia, in qualità di Autorità nazionale di risoluzione delle crisi nell’ambito del Meccanismo di risoluzione unico europeo, ha preannunciato l’istituzione di una Unità di Risoluzione e gestione delle crisi.
A questo si aggiunge la criticità derivante dalle sofferenze bancarie: secondo i dati del Centro Studi Unimpresa, queste avrebbero raggiunto la ragguardevole somma di 198 miliardi (di cui 142 derivanti da imprese – in barba alla ricrescita sbandierata da Renzi). Una criticità che continua a crescere, anno dopo anno, e che imporrà, per evitare tracolli, la ricapitalizzazione di molte banche.
Una crisi che potrebbe stendersi a macchia d’olio fino a interessare le banche più grandi: in attesa che a pagare siano i cittadini, infatti, a intervenire per compensare le perdite delle banche, dovrebbe essere il Fondo interbancario di garanzia dei depositi (Fitd) o Fondo di risoluzione, cui partecipano i 155 istituti aderenti all’ABI. Soldi che, secondo gli ultimi dati diffusi, dovrebbero essere reperiti attingendo, in prima battuta, alle banche più grandi (come Intesa San Paolo o Unicredit).
Uno stato di criticità di molte banche italiane che ha spinto il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Fabio Panetta, a inviare una lettera al consiglio di supervisione della Bce (a diffondere la notizia è stata Bloomberg) chiedendo di non prendere decisioni “ingiustificate” e “arbitrarie” nell’esame annuale sullo stato degli istituti di credito (Srep).

Investimenti sbagliati, gestioni errate, controlli superficiali, commissariamenti e fallimenti evitati in estremis.
Possibile che gli enti di controllo non si siano mai accorti di tutto questo (a cosa serviva, se non a questo, lo stress test voluto dalla Bce)? E se, invece, se ne erano accorti, cosa è stato fatto?
Tanto più che il problema non riguarda solo le banche italiane: si è già manifestato più volte in diversi paesi europei. In Spagna, in Grecia, ma anche in paesi economicamente “forti” come la Germania: la maggiore banca tedesca, la Deutsche Bank, versa in una situazione critica (da anni è soggetta a procedure e sanzioni miliardarie in tutto il mondo e, secondo diverse agenzie di rating, è a rischio – come dimostra anche il fatto che il titolo è crollato negli ultimi mesi).

La verità è che tutto il modo di gestire la finanza in Europa è stato sbagliato. E le misure correttive adottate fino ad ora non sono state altro che blandi palliativi per favorire chi ha sempre creato soldi dal nulla (basti pensare alla vicenda dei derivati che, pur essendo stati vietati a comuni, province e regioni, costano agli italiani miliardi di euro, al punto che il governo ha deciso di porre il segreto di stato sull’esposizione dello stato in questi titoli e sulle perdite). E quando la situazione è diventata tanto grave da non poterla più nascondere e le banche sono finite “in sofferenza”, le conseguenze della cattiva gestione dei banchieri sono state scaricate sulla gente comune (che si parli di “bad bank” o di “bail in” poco importa).
Il motivo per cui tutto ciò avviene è che, ormai, quasi tutti i paesi europei sopravvivono (e rispettano i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles) grazie alle continue elargizioni di valuta fresca (ma virtuale) da parte delle banche. Sono questi istituti che comprano titoli di stato che non rendono nulla: le ultime aste di Bot a sei mesi e di Ctz a due anni avevano addirittura rendimenti negativi. Quale investitore sarebbe tanto ingenuo da prestare soldi allo stato, sapendo che, per fargli questo favore, deve pure pagare? Nessuno. Eppure, alle aste periodiche, questi titoli vano a ruba. A comprarli sono le banche. Per loro queste forme d’investimento presentano molti vantaggi: innanzitutto, sono una alternativa a “parcheggiare” i soldi nei forzieri della Bce (cosa che costerebbe di più); e, poi, permettono di compensare, almeno in parte, i rischi connessi con altri investimenti ben più rischiosi. Ma non basta: disporre di questi titoli permette alle banche di esercitare forti pressioni su decisioni che dovrebbero essere prese in modo indipendente dal Parlamento, sia esso nazionale o comunitario. Non a caso, recentemente, il Financial Times ha reso noti i risultati di un’inchiesta che proverebbe scambi di informazioni tra “banchieri e asset manager pochi giorni prima, e in un’occasione anche poche ore prima, che venissero prese alcune importanti decisioni strategiche”.
Stando così le cose, non sorprendono gli sforzi compiuti da molti governi nazionali ed europei per risolvere i problemi delle banche. Anche quando i loro bilanci hanno del marcio al loro interno. Anche a costo di scaricare sui clienti (con il bail in) e sui cittadini (con le bad bank) i problemi e le perdite derivanti dalla cattiva gestione.
Anche quando si tratta di misure, come quella approvata nei giorni scorsi dal CdM del governo Renzi, che, forse, riuscirà a prolungare l’agonia di alcune banche. Ma sarà anche l’ennesima dimostrazione di chi comanda realmente il paese ….

C.Alessandro Mauceri